Ho iniziato a scrivere giovanissima, come molti fanno, per quell’esigenza di fermare sulla carta le emozioni. Spesso accade che lo si faccia per esaltare un sentimento, un affetto che sembra amplificato dal fatto di essere “scritto”. I primi batticuore, un amore non corrisposto o una storia d’amore adolescenziale che sta per finire. Sono tutti moti dell’anima ed esprimerli a parole, a volte inconfessabili ad altri, ci fa stare bene.
La scrittura e prevalentemente la poesia vengono poi abbandonate per un po’, talvolta ritornano a intervalli ricorrenti ma si cresce e non ci si sente più poeti.
Solo in età matura si comprende che per continuare a coltivare quest’arte è necessario studiarla.
Rimando a una citazione di Benedetto Croce che nel tempo è diventata un mio motto: “Fino a diciotto anni tutti scrivono poesie; dopo possono continuare a farlo solo due categorie di persone: i poeti e i cretini”.
E fu così che decisi di entrare a far parte di quella categoria di cretini che continuano a scrivere poesie.
Ho iniziato a leggerne tanta per comprendere cosa scrivessero gli altri cretini e chi di loro era riuscito ad entrare nella casta dei poeti e come lo avesse fatto, con quali strumenti. Gli stimoli erano tanti e sempre nuovi tanto che mi appassionai allo studio di alcuni poeti e di come avessero segnato la storia della letteratura.
Non saprei dire se sono mai riuscita a venir fuori dalla setta dei cretini, sta di fatto che ancora oggi, a distanza di quarant’anni, scrivo.
La poesia è diventata per me un lavoro che svolgo con dedizione e passione. Non può essere considerato un semplice hobby, richiede impegno, studio e tempo. Scrivo e sto bene perché scrivere mi fa stare bene. Portare a compimento un’opera è soddisfacente e più del risultato finale, che può essere arbitrariamente considerato scadente o di valore, reca in sé il meraviglioso cambiamento che l’atto di scrivere comporta. Un viaggio fatto del coraggio di partire, del percorso compiuto e della meta raggiunta; un viaggio attraverso le emozioni e le parole nella ricerca del linguaggio e del suono.
La scrittura dunque impegno, studio minuzioso e catarsi.
Mi accorsi ben presto dell’effetto catartico che la scrittura aveva in me. Una catarsi nella duplice accezione religiosa e psicoanalitica. Come una purificazione rituale di corpo e anima dalle contaminazioni di ogni sorta, mi liberavo, e mi libero, da tutte le situazioni di conflitto o di trauma nell’atto di rendere mondo da scorie il mio subconscio, di rimuovere tutte le esperienze inutili e dannose.
Come nella Tragedia, secondo la definizione che Aristotele fa nel sesto capitolo della Poetica, così per me la poesia “è imitazione di un’azione che non tramite una narrazione ma attraverso la pietà e la paura produce la purificazione di questi sentimenti stessi”.
Il fenomeno della kátharsis (κάθαρσις) è dunque il risultato di un’esperienza attraverso la quale io in veste di scrittore mi purifico e nei panni di lettore (o spettatore) sono alleviato da un nocivo carico emotivo, a prescindere che l’effetto sia provocato da una esperienza emozionale diretta.
Il mio atteggiamento è divenuto sempre più introspettivo fino a scavare nel mio dolore e venirne fuori purificata.
“Caverò i sassi del dolore dal mio cuore / e come vela / volerò il vento”.
(da “Cocci di rugiada” – Edizioni Sophìa 2020)