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Luogo e poesia

Cos’è la poesia se non un luogo?
Immaginiamo di leggere una poesia o di provare a scriverla. In entrambi i casi ci troveremo di fronte a un luogo.
È solito che un poeta attinga dalle proprie origini, dalle proprie radici, dalla famiglia di provenienza o ancora dai paesaggi che lo circondano o da quelli che conserva in memoria, dai cortili in cui giocava da bambino, da una casa della nonna che emanava profumi di pane caldo e sugo di carne.
Pensiamo quanta poesia rimanda alla romantica e malinconica immagine di un tramonto sul mare o a quella di una candida montagna innevata, di estesi campi fioriti, o della finestra chiusa di una stanza che si affaccia sull’asfalto bagnato e luccicante di una notte di luna piena da guardare per ore.
Che si parli del batticuore per la persona amata o di un dolore lacerante la poesia è sempre un luogo. Talvolta il luogo trascende il mondo fisico e allora ci troveremo di fronte a luoghi dell’anima ma pur sempre luoghi.
L’espressione “guardarsi dentro” presuppone uno spazio fuori, così come pensare di “esternare le proprie emozioni” conduce all’averle precedentemente chiuse in qualche luogo “dentro”.
Per questo motivo, a mio avviso, “luogo” e “poesia” rappresentano un binomio inscindibile.
Dei luoghi fisici e metafisici nella poesia è il più grande esempio Dante nella Divina Commedia, opera nella quale il poeta affronta un cammino universale e metaforico della condizione umana.
La selva oscura e i gironi dell’inferno, i cerchi, le cornici e il limbo, il Purgatorio, il Paradiso e la sfera di fuoco, i fiumi Stige e Lete (dell’odio e dell’oblio), i giardini dell’Eden: tutto è luogo fisico e tutto è luogo metafisico, in un viaggio senza tempo.
“Nel muto orto solingo”, “ne la terra fredda” e “ne la terra negra” sono i luoghi della drammaticità dell’ode Pianto antico e di Giosuè Carducci.
Così come luoghi da evocare nella trama della memoria poetica ci sono ancora il “natìo borgo selvaggio” leopardiano, o la Parigi baudelairiana e le periferie romane di Pasolini per citarne solo alcuni. Giuseppe Ungaretti ne Il porto sepolto evoca un luogo abissale e lo condensa in quell’enfatico pronome locativo “vi”: “Vi arriva il poeta / e poi torna alla luce con i suoi canti / e li disperde”.
Tutti “luoghi di affezione”, talvolta luoghi originari, che hanno un carattere strettamente referenziale e topografico, luoghi che appartengono al mondo reale e geografico. Un mondo reale fatto di città e paesaggi che entra in una trama di relazioni tra parola e ritmo.
L’evocazione di un luogo diviene lo strumento per consacrarlo.
Ci sono quindi in poesia i luoghi reali e della memoria, con l’estensione ai limiti geografici che li definiscono; sono città e orizzonti, sono paesaggi e ambienti che vengono descritti e circoscritti per essere raggiunti, abbandonati o attraversati.
Di un luogo “spazio” scrive invece Rilke nella poesia intitolata Conoscerli è morire: “Attraverso tutti gli esseri passa l’unico spazio; / spazio interiore del mondo. In silenzio volano gli uccelli / attraverso di noi. Oh! io che voglio crescere, / guardo fuori, ma è in me che l’albero cresce”.
Rilke evoca uno spazio paradossale, dove fuori e dentro, senza confondersi, si rovesciano e appartengono a tutto ciò che è, alla terra, all’aria, alla luce, alla tenebra.
Questo spazio detto “unico” è spazio vivente, insieme vuoto e pieno, attraversato e attraversante ma è anche luogo ove avviene la metamorfosi delle cose e dei fenomeni del mondo in una crescita interiore.
Compaiono poi in poesia luoghi non fisici ma pur sempre legati alla vita reale come, per esempio, un viaggio che va dalla nascita alla morte. In questo caso il luogo diventa indefinibile, vicino a un’esperienza emotiva. Anche la nostalgia o il tormento possono essere considerati luoghi e in questo caso li chiameremo luoghi dell’anima. Si tratta di uno spazio metafisico, un luogo “oltre” l’accessibile empirico.
Sempre Rilke ci presenta poi un luogo “non luogo”, in cui l’uomo è rivolto verso il mondo, verso le cose che lo abitano e le azioni che lo modificano. Per la sua stessa condizione mortale, egli è prigioniero del suo sguardo. Si ricordi il celebre passo dell’ottava elegia duinese:
“Con tutti i suoi occhi la creatura
vede nell’Aperto. […]
Ciò che è fuori, solo grazie alla presenza dell’animale
lo conosciamo: infatti già il bambino
appena nato, lo costringiamo a guardare
al contrario, verso l’apparenza e non nell’Aperto”.
Il poeta, come già Hölderlin nel concetto di poesia imprigionata, intuisce l’esistenza di un luogo libertà, che troveremo poi in Ungaretti.
Nell’elegia si intravede un rapporto fra l’aperto e l’ou-topos, il non-luogo dell’Utopia.
Il “nessun luogo” poetico è il limite di ogni luogo, spazio senza geografia, un luogo di pura libertà.
Sebbene dunque la terra e i suoi confini siano “tophos” per eccellenza la conoscenza umana può “sconfinare” in altri luoghi illimitati.
La poesia, comunque la si intenda, appartiene a un luogo ed è essa stessa luogo.

 

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